mercoledì 23 gennaio 2013

La fine che non è una fine


Nel paventare la fine di un ciclo, che poi non arriva - ultimo, in ordine di tempo, quello legato al calendario Maya - noi esseri umani vogliamo in realtà dimostrare che siamo esseri superiori, in quanto riusciamo a sopravvivere alla fine preconizzata.
Questo espediente, evidentemente, ci serve per esorcizzare la nostra innata paura di fronte ad ogni e qualsivoglia “fine”: non essendosi manifestata, possiamo tirare avanti senza patemi. Ma, non elimina il problema, che si ripresenterà infatti a distanza di tempo.
Una fine che non é una fine, dunque, per scacciare le nostre paure.

La scienza non si esprime, se non per dichiarare che alcuni fenomeni naturali, come i terremoti, non sono prevedibili.
Allora, non c’é soluzione, ci teniamo le nostre paure e chi vivrà, vedrà.

A proposito, la giustizia non la pensa come la scienza. Con sentenza di 1°, i giudici dell’Aquila hanno condannato gli scienziati, ritenuti colpevoli per aver tranquillizzato la gente, nell’aprile del 2009, prima che la scossa sismica distruggesse mezza città.
Il punto non é se sono prevedibili, ma cosa dire alla gente.

Nasce spontanea una sola domanda: conviene insistere nell’ignoranza, o é meglio ripartire da zero, ossia dalla “matematica celeste”, quella che avrebbe potuto diventare l’astrologia naturale, dopo Galileo Galilei, e … finì com'è finita.

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